Vidkun Quisling mentre firma un autografo nel 1943: fu probabilmente il collaborazionista più noto dell'epoca, tanto che il suo cognome è divenuto, in molte lingue, sinonimo di "traditore".
Il collaborazionismo è un fenomeno sociale e politico connesso alle vicende di governo di un paese occupato militarmente da una potenza straniera, che vi organizza una classe dirigente totalmente asservita agli interessi degli occupanti. Sebbene in Italia il termine fosse già usato prima del fascismo per indicare la partecipazione al governo da parte dei socialisti, esso viene abitualmente usato in riferimento alla collaborazione con i nazisti nei territori occupati durante la seconda guerra mondiale[1].
Esso consiste nell'organizzazione di una struttura di controllo sociale, in modo da creare un collegamento tra la potenza occupante e la popolazione assoggettata. Tale struttura di controllo sociale è composta da elementi locali e si articola secondo uno schema piramidale che riproduce quello tipico di un normale apparato statale, dotato quindi di una propria burocrazia e regole autonome di funzionamento, che va da un vertice, civile o militare, fino a una base operativa costituita da elementi inseriti nelle varie classi sociali con funzione spionistica e delatoria, che assicurino il controllo e la repressione dei movimenti eversivi che possono turbare l'ordine pubblico.
Da ciò il termine negativo di "collaborazionismo", nel senso di offerta stabile e consapevole di collaborazione con un soggetto occupante extranazionale, che rappresenta gli interessi di un altro governo, finalizzata a far funzionare l'apparato statale che altrimenti avrebbe difficoltà a operare normalmente, visto che il precedente apparato, di norma, viene rimosso o comunque destrutturato[2].
Il decreto 27 luglio 1944 n. 159 istituì un’Alta Corte di giustizia e Corti d’assise speciali – i giudici popolari erano designati dai Comitati di Liberazione nazionale – poi sostituite dalle sezioni speciali, con i giudici popolari nominati dal presidente della Corte e la possibilità per i condannati di ricorso in Cassazione. Peraltro, "il decreto 5 ottobre 1945 sottraeva a questi organi le questioni che implicavano un giudizio di carattere militare, devolute ai Tribunali militari, disposizione decisiva nella lunga vicenda giudiziaria di Graziani, accusato ai sensi dell’art. 5, che rifondeva il decreto 26 maggio 1944 n. 134, e disponeva «chiunque, posteriormente all’8 settembre 1943, abbia commesso o commetta delitti contro la fedeltà e la difesa militare dello Stato, con qualunque forma di intelligenza o corrispondenza o collaborazione col tedesco invasore, di aiuto o assistenza ad esso data, è punito a norma delle disposizioni del Codice penale militare di guerra. Le pene applicate ai militari sono applicate anche ai non militari. I militari saranno giudicati dai Tribunali militari, i non militari dai giudici ordinari»"[7].
All’indomani dell’annuncio alla radio del maresciallo Badoglio sulla resa dell’Italia, il 9 settembre 1943 i tedeschi, nell’ambito di attuazione del piano Achse, nell’arco di 9 giorni occuparono gran parte del territorio italiano spingendosi a sud quasi fino a Salerno, dove il 18 settembre 1943 la loro avanzata fu fermata dagli Alleati. L’esercito tedesco si appropriò inoltre di tutti i territori fino ad allora occupati dall’esercito italiano catturando complessivamente circa 810.000 militari italiani. Circa 197.000 militari catturati scelsero, per convinzione o semplicemente per evitare la deportazione, di continuare la guerra a fianco delle potenze dell’Asse, tradendo in tal modo il giuramento fatto al Re. I rimanenti 600/650.000 uomini, rifiutarono ogni collaborazione con le forze armate tedesche e fasciste, restando fedeli al giuramento fatto al re, furono rinchiusi nei campi di prigionia nazisti.[8][9]
Nei due mesi successivi all'insurrezione un notevole numero di persone fu sottoposto a processi popolari e giustiziato, a volte anche senza processo, per aver militato nella RSI, aver manifestato simpatie fasciste o aver collaborato con le autorità tedesche. Gli atti di giustizia sommaria nei confronti di fascisti e collaborazionisti, compiuti nei giorni immediatamente successivi al termine della guerra, furono localmente tollerati dai comandi alleati:
Reparti italiani alle dipendenze del LXXXXVII Armeekorps comandata dal gen. Ludwig Kübler[10]
Gruppo corazzato S. Giusto – Mariano del Friuli (c.ca 130 uomini);
4ª compagnia del CXXXII battaglione fortificazione costiera – Udine oltre (100 uomini);
II battaglione del reggimento alpini “Tagliamento” – Valle del Vipacco;
V battaglione genio artieri Villa del Nevoso (oltre 300 uomini);
XVI battaglione difesa costiera – Fiume (c.ca 350 uomini);
XIV gruppo di artiglieria da posizione costiera – Muggia (c.ca 300 uomini);
XVII gruppo di artiglieria da posizione costiera – Muggia (oltre 350 uomini);
II battaglione genio autieri – Istria (oltre 550 uomini);
I battaglione genio guastatori – Istria (oltre 100 uomini);
XI gruppo artiglieria da posizione costiera – Fiume (oltre 300 uomini);
XII gruppo di artiglieria da posizione costiera – Fiume (c.ca 250 uomini);
XVII battaglione difesa Costiera – Pola-Fiume (oltre 600 uomini);
VI battaglione genio artieri – Fiume-Pola (oltre 200 uomini);
XIII gruppo di artiglieria da posizione costiera – Pola (c.ca 350 uomini);
4ª compagnia trasmissioni oltre (200 uomini);
1º e 3º reparto Salmerie e Carreggio.
«Fate pulizia per due, tre giorni, ma al terzo giorno non voglio più vedere morti per le strade»
(Colonnello inglese John Melior Stevens al CLN piemontese[11])
Secondo un'indagine della Direzione generale di Pubblica sicurezza, svolta alla fine del 1946, le persone uccise perché politicamente compromesse con il regime fascista sarebbero state invece 8.044. A questo numero vanno aggiunte 1.180 persone "prelevate e presumibilmente soppresse", per un totale di 9.224.[12][13][14] Questa cifra si accorda con l'entità di quelle dichiarate nel 1948 al Senato da Ferruccio Parri, che parlò di un numero di morti compreso tra 10.000 e 15.000.[15]
Per processare i sospettati di collaborazionismo il 22 aprile 1945 furono istituite le Corti d’Assise straordinarie (Decreto legislativo luogotenenziale 22 aprile 1945, n. 142).[16][17] Le Cas operarono fino all’ottobre 1945, sostituite dalle Sezioni speciali delle Corti d’Assise straordinarie fino al 1947. Da fine 1947 in poi i reati di collaborazionismo, quei pochi che vennero ancora perseguiti, passarono alla giustizia ordinaria.
«Il quadro generale… dei condannati per collaborazionismo, dei processi ancora in corso e dell’impatto dei provvedimenti di clemenza viene riassunto in una relazione inviata dal ministro di grazia e giustizia, Adone Zoli, al presidente del Consiglio dei ministri Alcide De Gasperi, all’inizio del 1953. Dalla relazione risulta che vi erano stati:
– 5928 condannati per collaborazionismo
– di questi 259 erano stati condannati a morte
– la sentenza era stata eseguita per 91 di essi. Per gli altri 168 la condanna alla pena di morte non aveva avuto seguito in conseguenza di provvedimenti di amnistia o di grazia.
Un numero imprecisato di condannati era stato liberato e la pena era stata interamente estinta in seguito alle amnistie.
Al 31 dicembre 1952 i condannati per collaborazionismo ancora detenuti erano 266, i latitanti 334.
Se prendiamo in considerazione gli imputati e tra questi coloro che furono condannati, possiamo dire che, in generale, tra coloro che avevano esercitato ruoli di rilievo nella Rsi, negli alti gradi dell’esercito, dell’amministrazione, dei tribunali speciali, ben pochi furono condannati a pene severe. Per la quasi totalità di loro non si giunse nemmeno al dibattimento; se processati, furono condannati a pene lievi, assolti, liberati in seguito alle amnistie (...) La maggior parte dei collaborazionisti che subirono delle condanne aveva esercitato funzioni medio-basse, erano inquadrati nelle varie Brigate nere, nella Guardia nazionale repubblicana, nei servizi di polizia investigativa (UPI Ufficio politico investigativo), e nello spionaggio. La tesi che i tribunali si accanissero contro i gregari, mentre i capi uscivano indenni dalla resa dei conti, fu ampiamente utilizzata dagli avvocati difensori dei condannati per chiedere annullamenti delle sentenze e revisione dei processi.»
(Cecilia Nubola, Uscire dalla guerra. Giustizia e tribunali [18])
Reparti italiani operativamente dipendenti dal Comando SS e della Polizia dell'OZAK con a capo l’ufficiale delle SS Odilo Lothar Ludwig Globocnik[10]
IX gruppo di artiglieria da posizione costiera – Trieste (circa 250 uomini)
XV Gruppo di artiglieria a posizione costiera – Trieste (oltre 200 uomini)
Battaglione “Volontari di Sardegna” – Pola-Trieste (oltre 200 uomini).
5º reggimento della Milizia Difesa Territoriale (o Landschutz Miliz) – Friuli (c.ca 2.900 uomini);
4º reggimento della Milizia Difesa Territoriale (o Landschutz Miliz) – Gorizia (c.ca 1.000 uomini);
1º reggimento della Milizia Difesa Territoriale (o Landschutz Miliz) – Trieste (c.ca 320 uomini);
2º reggimento della Milizia Difesa Territoriale (o Landschutz Miliz) – Istria (c.ca 2.000 uomini);
3º reggimento della Milizia Difesa Territoriale (o Landschutz Miliz) – Fiume (c.ca 1.500 uomini);
Collaborazionismo nella Zona d'operazioni del Litorale adriatico
«Prefetti e podestà finiscono sotto il controllo di "consiglieri" tedeschi". Dalle autorità tedesche dipendono direttamente anche le formazioni della milizia fascista e i vari reparti di polizia, impegnati anche nelle operazioni di rastrellamento antipartigiane. Tra questi particolare rilievo ha l'Ispettorato Speciale di Pubblica Sicurezza per la Venezia Giulia... La sezione operativa dell'Ispettorato divenne tristemente nota come "Banda Collotti, dal nome del suo comandante Gaetano Collotti. Dopo l'8 settembre essa proseguì nella sua attività antipartigiana mettendosi al servizio dei tedeschi e distinguendosi in particolare nella cattura degli ebrei.»
La politica del NSDAP era, nel complesso, quella di lasciare l'autonomia necessaria alle autorità dei paesi occupati con un loro governo per mantenere l'ordine pubblico, permettendogli di risparmiare truppe d'occupazione che restavano quindi disponibili per il fronte.
Quasi tutti i paesi occupati ebbero la loro forma di collaborazionismo:
la Croazia, dove i nazionalisti croati (gli Ustascia) di Ante Pavelić e le SS croate furono molto attive nel collaborare con l'occupante, non solo combattendo i partigiani, ma anche prendendo di mira gli zingari, gli ebrei e anche i serbi ortodossi (nonostante la collaborazione con i Cetnici)[21].
In Bosnia, allora compresa nella Croazia degli Ustascia, dove gli occupanti reclutarono delle Waffen-SS musulmane[21].
la Norvegia, diretto da Vidkun Quisling, il cui nome servì durante la guerra a designare i dirigenti collaborazionisti, che gli Alleati chiamarono appunto "Quislings"[22].
la Slovacchia, diretto dal monsignore cattolico antisemita Jozef Tiso. Lo Stato fantoccio slovacco, voluto da Hitler quando venne scisso dalla Boemia e dalla Moravia in violazione degli accordi di Monaco, aveva garantito la propria alleanza alla Germania in cambio dell'indipendenza da Praga, ma a causa della ridotte dimensioni territoriali era di fatto succube della Germania. Il governo slovacco inviò circa 20 000 soldati a invadere la Russia accanto all'esercito tedesco, e collaborò alla deportazione dei civili ebrei. Tiso fu successivamente condannato per alto tradimento e impiccato.
Ucraina, dove ci fu un notevole esempio di collaborazionismo: molti ucraini si unirono all'Asse dichiarando la restaurazione dello Stato ucraino. La Germania nazista reagì negativamente alle richieste dei nazionalisti ucraini e invase la regione, istituendo invece il Reichskommissariat Ukraine (1941-1944).[23] La nuova entità amministrativa fu caratterizzata da uomini ucraini che entrarono in servizio delle SS per l'amministrazione civile ed eliminare tutte le persone indesiderate (in particolari comunisti, polacchi, ebrei, rom, sinti ed omosessuali). Molti ucraini si unirono alla Wehrmacht e agli altri eserciti dell'Asse per combattere i comunisti russi; si stima che in totale ci furono (su 1.000.000) di persone ucraine che abitarono in Ucraina 30.000 si arruolarono nelle SS ed altri 200.000 nell'esercito tedesco. Gran parte dei volontari furono principalmente da Leopoli, Kiev, Kharkiv, Odessa, Donec'k e altre città importanti.
Russia, dove si manifestarono episodi di collaborazionismo in modo più o meno eclatante. L'esempio più noto di collaborazionismo fu quello dell'ex-generale dell'armata rossa Andrej Vlasov, il quale si offrì di cooperare con le autorità occupanti a seguito della sua cattura. Nonostante il netto ritardo nell'istituire la brigata, Vlasov venne comunque considerato dai comandi militari tedeschi come la "guida" di tutti i combattenti filo-nazisti dell'oriente, sebbene molti di questi abbiano rifiutato l'offerta di unirsi al KONR (Comitato per la liberazione dei popoli della Russia, istituito dai tedeschi e guidato da Vlasov). Altri esempi di collaborazionismo in Russia furono la RNNA, il corpo di protezione russo (Entrambi occupati nei Balcani), la 29. divisone delle SS RONA (Guidata dal violento e spietato brigadeführerBronislav Kaminskij e responsabile di numerosi massacri di civili durante la Rivolta di Varsavia e posti alla guida dello stato fantoccio russo dell'Autonomia di Lokot) e i vari corpi di origine cosacca, come quella assegnata al generale tedesco Helmuth von Pannwitz.
nei Paesi Bassi è noto il collaborazionista Meinoud Rost van Tonningen, leader del Movimento Nazional-Socialista olandese che, benché non ritenuto responsabile di crimini di guerra, fu attivo nel tentativo di soppressione dei partiti socialisti e comunisti nel Paese.
in Estonia, sebbene in maniera più contenuta rispetto agli altri due Paesi baltici, furono diversi i cittadini che decisero di schierarsi a favore dei nazisti in chiave anti-sovietica. Tale decisione fu dovuta alla promessa effettuata dai tedeschi di ripristinare l'indipendenza nel Paese: svanita la fiducia dei locali, gli estoni si divisero tra chi fornì assistenza a Berlino, chi a Mosca e chi a nessuna delle due fazioni.[25]
in Lituania, il collaborazionismo fu abbastanza diffuso per via del desiderio da parte dei lituani di dimenticare l'occupazione sovietica del 1940, culminata con una massiccia deportazione. L'ausilio fornito dai lituani riguardò anche la Shoah: dei circa 220.000[28]-250.000 cittadini[29] ebrei che popolavano la Lituania prima della seconda guerra mondiale, ne furono uccisi 190.000–195.000, la maggior parte dei quali tra giugno e dicembre 1941. Più del 95% della popolazione ebraica della Lituania perse la vita durante l'occupazione, una percentuale di gran lunga superiore a qualsiasi altro paese interessato dalla Shoah.[30][31][32]
In generale le truppe straniere nelle Waffen-SS raccolsero quasi 500.000 aderenti da tutti i Paesi occupati, venendo così a costituire la più grande formazione militare volontaria della storia. Non sono considerabili collaborazionisti i membri minori dell'Asse, come l'Ungheria, diretta da Miklós Horthy, o la Romania di Ion Antonescu. Tuttavia, entrambi questi paesi divennero collaborazionisti nelle fasi finali del conflitto, seppure su fronti opposti: in Ungheria venne instaurato un regime filo-tedesco, le Croci Frecciate, per evitare una resa separata, e in Romania Re Michele I effettuò un colpo di Stato per creare un governo filo-sovietico che firmasse la resa incondizionata all'Armata Rossa, offrendo così all'URSS il controllo totale della Romania.
^Stanley Hoffmann, Collaborationism in France during World War II, The Journal of Modern History, Vol. 40, No. 3 (Settembre, 1968), pp. 375-395
^Bertram N. Gordon, Collaborationism in France during the Second World War, Cornell University Press, Ithaca, New York, 1980, ISBN 0-8014-1263-3, p. 18.
^Paul Webster, Petain's Crime: The Complete Story of French Collaboration in the Holocaust, Ivan R. Dee, 1999
^Wang Jingwei. "Radio Address by Mr. Wang Jingwei, President of the Chinese Executive Yuan Broadcast on 24 June 1941" The Search for Modern China: A Documentary Collection. Cheng, Pei-Kai, Michael Lestz, and Jonathan D. Spence (Eds.). W.W. Norton and Company. (1999) pp. 330–331. ISBN 0-393-97372-7.
^G. Focardi e C. Nubola (a cura di), Nei tribunali. Pratiche e protagonisti della giustizia di transizione nell'Italia repubblicana, Bologna, Il Mulino, 2016, pp. 178-181. In tale testo si legge anche: "per la gravità della nuova configurazione punitiva – con la previsione della pena di morte – e l’area indefinitamente estesa degli incriminabili, la formulazione dell’art. 5 era molto discussa sul piano politico, dottrinale e giurisprudenziale. L’antifascista Giuliano Vassalli nel 1946 esaminava «tutte le questioni poste dalla difficile interpretazione di questo sciagurato articolo», che pure appariva coerente con i principi del diritto internazionale e con analoghe disposizioni dei paesi europei già occupati dalla Germania nazista. Dal canto suo Carnelutti ne criticava la «presunzione ‘iuris et de iure’»; sosteneva che in Vassalli, «giovane e fine giurista», «la mano del politico aveva preso quella del giurista», col consentire che «il diritto fosse stato contaminato dalla politica». Per la dottrina il collaborazionismo pareva rivestire minore gravità rispetto ai crimini di guerra, «delitti internazionali», di «lesa umanità», studiati fin nel 1945 da Pietro Nuvolone, dallo stesso Vassalli, da Giuseppe Codacci Pisanelli, che, ragionando sul processo di Norimberga, auspicava una «concezione della giustizia non raffigurabile con una semplice scure, ma simboleggiata dall’equilibrio della bilancia oltre che della spada». Il collaborazionismo era poi distinto dall’alto tradimento; proprio nella condanna di Graziani il Tribunale militare di Roma ed il Supremo Tribunale militare avrebbe considerato il «quid novi» iscritto nell’art. 5. Anche se il presidente Beraudo di Pralormo definiva il collaborazionismo «formula più di sapore fazioso che non di fondamento giuridico», e vedeva nell’ex maresciallo d’Italia un «colpevole di disobbedienza al Re», l’imputato sarebbe stato condannato per «collaborazionismo militare col tedesco» e non per «tradimento»."
^ab G.G. Corbanese e A. Mansutti, Zona di operazioni del Litorale Adriatico, Udine, Aviani & Aviani editori, 2009.
^Gianni Oliva, La Resa dei conti, pag. 12 (op. cit.)
^ Gianni Oliva, La resa dei conti, Mondadori, marzo 1999, p. 12, ISBN88-04-45696-5.
^ Nazario Sauro Onofri, Il triangolo rosso, su storiaememoriadibologna.it, Marzo 2007. URL consultato il 17 giugno 2023. — Tra gli allegati del saggio storico di Nazario Sauro Onofri vi è anche la copia del documento del Ministero degli Interni, datato 4 novembre 1946, privo di firma, che contiene l’elenco dei dati relativi al numero delle persone uccise o scomparse, raccolti e comunicati dalle questure.
^ACS, Min. Int., Gab., 1950-1952, Gab., 1950-1952, busta 33, f. 11430/16.
^Atti Parlamentari, Senato, 1948, Resoconti delle sedute plenarie, I, p. 563.